FEDEZ E IL PUNTO ZER0

Voi scrivete da fuori quella porta.

Io invece da dentro.

Voi potete solo immaginare, scrivere articoli in cui riportate le parole di Fedez, riapparso dopo settimane di silenzio social. Riapparso per spiegare cosa l’ha tenuto lontano da tutto, spiegare che ha dovuto prendersi cura della sua salute mentale e sospendere uno psicofarmaco che gli dava pesanti effetti collaterali (ad esempio le balbuzie di cui i giornali parlavano la scorsa settimana dopo la sua diretta radiofonica), ha dovuto abbandonare la strada più semplice, perché a come ci spiega, la strada più semplice sono stati i farmaci l’indomani della sua battaglia col tumore.

Ho letto decine di articoli su di lui in questi giorni, da Sanremo in poi, apprezzandone davvero pochi, perché in pochi era evidente la sensibilità di ricondurre tutto lì, al punto zero.

Il punto zero per me è stato quando seduta di fronte ad una dottoressa dal cognome equino mi ha detto che sì, nel mio seno c’era un tumore aggressivo. Il mio punto zero è diverso ed al contempo identico a quello di tantissime persone a cui viene fatta la diagnosi di tumore.

C’è un prima. E poi c’è un dopo.

Fedez ha ripreso ad allenarsi, a lavorare, a sorridere a favore di camera. Ed ha fatto tutto nel migliore dei modi. Eppure guardandolo mi chiedevo in quale angolo di quella casa lasciasse uscire i suoi demoni.

I suoi timori.

Il punto zero ci presenta la paura, diventa la nostra compagna di viaggio ed anche se in alcuni momenti ci sembra che sia lontana, in realtà basta volgere lo sguardo con più attenzione per vederla sempre accanto a noi. Siede attorno al nostro tavolo, si addormenta con noi, si sveglia con noi. Non ci lascia.

Oggi scopriamo che Fedez per farla tacere, questa paura, ha abusato di psicofarmaci, li ha cambiati in un susseguirsi di pillole alla ricerca di quella che le avrebbe tappato la bocca più a lungo. Addormentandola.

Ma il prezzo da pagare per quel sonno innaturale stava diventando troppo caro, ed ha deciso di affrontarla.

Oggi sceglie di guardarla negli occhi affinando gli strumenti per non lasciarsene sopraffare, come la psicoterapia.

Oggi Fedez sceglie la vita. Io l’ho scelta mesi fa, quando mi sono resa conto di aver bisogno di una stampella a cui poggiarmi.

La malattia ci stravolge. Ho pensato di uscirne con le mie gambe per poi capire che non se ne esce mai davvero, per capire che la mia malattia affonda le proprie radici anche nelle persone che amo ormai.

Nei miei figli, in mio marito. Quindi, nel suo caso, in Chiara ed in quei bambini che inconsapevolmente hanno temuto per il proprio papà.

I bambini sviluppano proprie difese, i miei erano dei bambini e sono oggi degli adolescenti, arrabbiati, chiusi, impauriti. Quanto di quello che sono sarebbe stato comunque così? E quanto deriva invece dal punto zero? Non possiamo fare a meno di chiederci quale siano state le conseguenze del punto zero, perché alcune si dipanano davanti ai nostri occhi solo molto tempo dopo.

Io penso che pochi di quelli che scrivono possano davvero sapere cosa ci sia nel cuore di Fedez, pochi di voi sanno cosa significa convivere con questa paura che ci tiene a braccetto. Abbiate sempre rispetto per chi rinasce, perché deve imparare a camminare con un bagaglio sulle spalle, cercando un nuovo equilibrio con molta fatica. Siamo stanchi. Dovete capirlo bene.

Siamo umani, tenetelo sempre a mente.

Non siamo eroi, non siamo eroine. Ma abbiamo un peso specifico maggiore di prima perché in noi alberga la paura. Essa ci rende anche migliori, liberi, sfrontati, vivi nel qui ed ora; sebbene fragili.

Vi scrivo da dentro quella stanza, perché è da li che non si esce uguali a sé stessi, ed è da lì in poi che ogni sguardo rivolto ai nostri figli sottende la voglia di fissare un fotogramma, di imprimere un ricordo, di pregare di vederli crescere.

Noi vogliamo solo questo, vederli crescere.

Dietro la radio, i vestiti, i programmi tv… Fedez ha i miei stessi occhi, che ho gli stessi occhi di migliaia di persone come noi. Gli occhi di chi si alza da quella sedia, esce da quella stanza e prova a trasformare il punto zero in una rinascita. Gli occhi di chi fa i conti con l’ombra della paura. Gli occhi di chi però impara a dare il giusto peso ad ogni singola cosa da li in poi, non perdendo nulla. Nulla del bello che c’è.

Gli occhi di chi non finisce un viaggio ma anzi lo inizia. E lui oggi vuole proseguirlo senza aiuti chimici, ma solo prendendosi cura di sé, della sua anima.

Ci allontaneremo da quel punto zero. Ma mai tanto a lungo da tornare quelli di prima forse.

Ci siamo alzati da quella sedia uscendo dalla stanza, eppure guarda… Il calco di ciascuno di noi è lì che resta. Come il velo di rugiada all’alba del nuovo giorno. Come una sottoveste che s’impiglia sulla sedia e che ci auguriamo di non indossare mai più.

Vai Federico vai. Lontano da lì.

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17 anni fra tratteggi e strappi

C’è forse qualcosa di più bello dell’avere 17 anni? Ricordo non solo i luoghi, le persone, le giornate salienti, ma anche gli odori, gli stati d’animo, i colori delle maglie ed il senso di inadeguatezza misto all’euforia del sentirsi parte di qualcosa. Quel qualcosa era il gruppo, le amicizie, i pomeriggi da riempire con nulla ma che poi – tant’è – sembravano pieni zeppi di vita.

Zero parte da là. ” E allora noi andavamo lenti perché pensavamo che la vita funzionasse così, che bastava strappare lungo i bordi, piano piano, seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati e tutto avrebbe preso la forma che doveva avere. Perché c’avevamo diciassette anni e tutto il tempo del mondo.” Ci racconta con quel fare limpido e privo di fronzoli non solo quello che la maggior parte di noi ha ” fatto” ma anche quello che la maggior parte di noi ”ha pensato” e pensa ancora mentre, intenti a strappare lungo i bordi, ci accorgiamo che la vita sceglie per noi direzioni opposte; e ci porta ai lati del foglio.

Il suo pensiero scorre fra i colori di fotogrammi nati da disegni che sono piccole opere d’arte, frammenti di verità.

Il suo pensiero è il tuo, mentre seduta sul divano ti ripeti ”eh si…me lo sarò detta mille volte”. L’Armadillo diventa allora anche il tuo di alter ego, ed è anche a te che parla, perchè a schivare la vita ci abbiamo provato tutti – chi più chi meno – per paura, per pigrizia o perchè solo a pensarci siamo partiti già un po’ sconfitti e persino un tantino stanchi; e siamo rimasti allora seduti su quel divano – coi jeans ed i calzini – e siamo rimasti solo amici di quel tipo, come Zero e Alice, che incarna il suo rimpianto, l’amore non vissuto dell’adolescenza, l’incomprensione che segna l’occasione ”persa”.

Sarah, la migliore amica di Zero, ci definisce fili d’erba. Fili d’erba solitari in mezzo ad un prato. Fili che da soli ”non spostano niente”, il che esprime esattamente quello stato d’animo là, quello di chi sa che da soli non si arriva lontano ma che insieme sì, si viaggia a lungo.

Zero ti riporta indietro e poi violentemente in avanti. In un andirivieni che ti strappa grandi risate, di quelle che nascono dalla pancia, nel punto proprio sopra l’ombelico e sgorgano poi vere dalla bocca. La mia casa si è riempita di risate, e di lacrime di puro divertimento.

Pensi ”è un genio” e poi ti dici ”è solo vero”.

Vero anche qualche giorno fa, quando in risposta ad un articolo dove ”con un virgolettato” si parlava della sua attuale vita post -serie tv descrivendola come ”invivibile” (per via della fama ottenuta in maniera così dirompente) lui ha pensato bene di rispondere con una vignetta.

”le vite invivibili so’ altre” …e ridi, ridi ancora, e pensi ”c’è riuscito ancora una volta!” M’ha fatto ridere e mentre ridevo m’ha fatto anche riflettere, perchè questa è la sua dote più grande, la più vera: Zero ti fa pensare. Ti costringe, a pensare.

Zero è il nostro Armadillo, in un gioco di ruoli inconsapevole e meraviglioso, diventa lui la nostra coscienza. Ridiamo di lui e poi di noi e ancora di lui, in un cerchio senza capo nè coda in cui c’additiamo su chi abbia fatto prima cosa.

E’ seduto davanti a noi, lui e i suoi occhi tondi un po’ strabuzzanti e ti guarda fisso in viso, sorride sornione perchè lui lo sa. L’ha sempre saputo.

Che ora che c’ha detto ad alta voce ‘sta cosa delle cicatrici le mostriamo con orgoglio. Sono parti di noi, la parte più importante, sono ”la vita”, come dice lui.

La mia è qua, proprio sul petto, e mentre lo ascoltavo ho pescato lo Zero-pensiero dal fondo del mio animo, lì dove era nascosto e dove lui sapeva che l’avrei trovato, e l’ho portato a galla.

Sono fuori dai bordi, e lo sono da un bel po’. E lo sei anche tu , e tu, e tu. Lo siamo tutti; perchè è così che la vita fa. Come un’onda, una marea, una spallata bella forte mentre con le forbici tenti d’andar dritto sul foglio.

Ma Zero è questo che ci vuole spiegare, che fuori dai bordi è probabilmente qui dove ci troviamo oggi, e che sì forse non l’abbiamo scelto, nè era nei nostri piani di diciassettenni, ma è il nostro posto.

E che l’importante è strappare, perchè finchè strappi significa che ci sei, in milioni di modi possibili. Ma sei qui.

La vacanza Im-perfetta e senz@ filtri

E’ stata una vacanza perfetta ?

Assolutamente No! E’ stata una vacanza imperfetta in cui hanno dimorato – sguazzando fra i nostri iniziali e più che utopistici progetti – momenti di infelicità, imprevisti e litigi..

Per quest’anno il piano vacanze era (sulla carta) una perfetta combo fra mare, città d’arte e relax, il che si è tramutato nella realtà in una corsa ad ostacoli resa ancor meno tollerabile dal caldo umido ed afoso dell’estate.

Tre figli, tre diverse età: infanzia, preadolescenza e piena adolescenza. Mi sono trovata circa un milione di volte a dover gestire simultaneamente esigenze diverse opposte.

Ma cosa ci rende una famiglia? Rispondiamo in coro: la capacità di rimettere insieme gli umori, ricreare un centro, tornare a ridere di ciò che sino al giorno prima era motivo di frattura. Incredibile a dirsi ma ci siamo riusciti. Sono nate così le più potenti risate di questa lunga vacanza, i tormentoni, le canzoni inventate, gli sguardi d’intesa.

I miei figli si sono divertiti, annoiati, sporcati, stancati. Mi hanno amata, ma a tratti anche stremata.

Eppure fra pinete, grotte, spiagge, albe e nuove città sentiamo il peso di questo bagaglio fatto di ricordi solo nostri, di libri (tanti) letti ad ogni ora del giorno, di carezze di nonne e zii, di parole, di prime pene d’amore da arginare senza istruzioni.

Ed è un peso incredibilmente dolce da portare addosso ora, ora che annego nei profili Instagram di amici, conoscenti e vip e nelle loro vacanze dai filtri blu oceano – nella sabbia dorata, nei vestiti perfettamente stirati, nei sorrisi tesi su visi lisci e riposati che io neppure a quindici anni – e ripenso invece a quanto è stato faticoso per me ‘’unire’’ i giorni affinché il successivo non portasse addosso mai lo strascico del precedente; e ci penso mentre riguardo le foto off (quelle bruttine o fuori fuoco) trovandole le sole ad avere una voce.

Click. Le pubblico! Proprio quelle.

 Si sentono? Ridono scomposte, dormono sciatte , giocano rumorosamente, ridono ancora.

Parlano dei veri noi.

#Fuori fuoco.

Pietro Castellitto e l’arte di essere ”figlio d’arte”

Magistrale. Gel nei capelli, naso aquilino e voce calibrata sul personaggio che interpreta. Una sfida, un tributo, un ritratto dell’ultimo re di Roma: Francesco Totti.

In ”Speravo de morì prima” , miniserie Sky firmata Luca Ribuoli, accanto ad una bravissima Greta Scarano, Pietro Castellitto – figlio di Sergio e di Margaret Mazzantini – interpreta Francesco Totti in una serie che ripercorre successi e vita privata del campione romanista dal principio fino all’epilogo della sua carriera.

Ho visto Pietro in ”Non ti muovere”, pellicola forte e intensa nata dalla penna di sua madre Margaret, ed ancora in Venuto al Mondo – uno dei libri della Mazzantini che più ho amato in assoluto – dove interpreta Pietro, ”venuto al mondo”, appunto, al centro di una lunghissima storia di amore e di vita, una di quelle che ti entra dentro per non abbandonarti più.

Ma Pietro ha anche interpretato il coprotagonista del primo libro di quel genio di Zero Calzare, fumettista e scrittore brillante ed ironico, ovvero La profezia dell’Armadillo; ed ancora ha recitato come protagonista di ”E’ nata una star” nato dallo scritto di Nick Hornby il cui libro ”Alta fedeltà” è nella mia top five personale (tanto per dirla in stile Hornby).

Insomma Pietro campeggia fra i miei scrittori e personaggi preferiti, li interpreta, li crea, gli da voce. Appare lì dove la mia curiosità si ferma, lì dove si accende la mia attenzione, lì dove le mie risate nascono fragorose.

Porta addosso il peso di non uno ma ben due cognomi famosi, circostanza che immagino non gli abbia sempre reso più semplice il muoversi nel mondo del cinema e della televisione. Suppongo che ci siano sguardi e aspettative e domande; ma sfido chiunque a vederlo recitare o a sentirlo semplicemente parlare senza riconoscere la sua preparazione, la sua dedizione e quella sicurezza tipica di chi non improvvisa, ma studia, pondera e solo infine crea (ha già dato prova di regia vincendo il premio Orizzonti con ”I Predatori” lo scorso anno).

Pietro incarna Totti e ci incanta. L’inflessione della voce, le movenze e lo slang romano che è proprio di entrambi. Questa serie ci restituisce la reale vita di un giocatore idolatrato da tifosi di ogni età ma anche da chi romanista non è, perché Totti è prima di tutto un principe buono, uno dal cuore grande, al di là del calcio; e questo la gente lo sa.

In un’intervista fatta per la presentazione della serie, Pietro ha letto un brano del suo diario segreto – tirato fuori dal cassetto dei suoi 9 anni e dei suoi ricordi – in cui parla di Totti con gli occhi di un bambino che vive il mito e lo vede nascere, e crescere..

Il Pietro bambino usa già un italiano perfetto e metafore divertentissime alla fine delle quali si ride, e poi si riflette e infine ci si dice – facendo spallucce – ”non potevi che interpretarlo te ”, te che con delicatezza e senza alcuna ostentazione fai ad arte esattamente ciò che sei : il figlio d’arte.

Pre-Adolescenza : manuale d’istruzioni cercasi…

Quand’è lecito gettare la spugna? alzare le braccia al vento come a dire ” mi arrendo vostro onore”, lasciarsi attraversare e trascinare e perché no, anche schiacciare, dal senso di impotenza che un preadolescente in famiglia può causare?

Atterrita. Mi sento atterrita e scoraggiata come chi – dopo aver chiuso l’ultima pagina del tanto agognato manuale – si trovi punto e a capo con le proprie domande frustrazioni…

C’è stato un tempo in cui devo aver pensato che essere adolescente fosse magnifico, che quel misto di innocenza e di virilità fosse una perfetta alchimia durante il miglior periodo della vita, ed il momento in cui devo averlo pensato dev’esser stato quando avevo anche io la stessa stupidità età.

perché ora – ora – io penso Invece che l’adolescenza sia l’anticamera della follia, l’esplosione ormonale da cui non si sa se si possa uscirne vivi. non come genitori almeno.

Chi l’avrebbe mai detto? la mia pazienza è infinita eppure eccomi qua, in un pomeriggio qualsiasi durante l’ennesimo lockdown: è finita. Ho sbraitato, ho parlato amorevolmente, ho ignorato, ho inferto punizioni, ho risposto all’ira con gli abbracci, ho urlato come un’ossessa sino ad avere la voce rauca. ma nulla. Il preadolescente sa sempre quale mossa faremo, sa il nostro punto debole, sa quando piangere e quando adularci, sa quando chiedere e quanto, sa persino quando piuttosto che tollerare le sue lagnosissime richieste saremmo disposte a dilapidare un terzo dello stipendio in skin di fortnite.

Noi per l’adolescente non abbiamo segreti. e – si sa benissimo – quando si è con le spalle al muro, disarmate, si perde. Pensiamo innocentemente che un giorno ci ringrazierà, che guarderà alle nostre punizioni come ad atti di amore che non solo lo avranno salvato, ma che gli avranno anche restituito la più bella delle vite. e invece no, povere illuse, il preadolescente al contrario serberà ogni privazione, ogni punizione ed ogni negazione nel serbatoio di rancore che srotolerà solo davanti a due persone: un’analista o una moglie.

Sono qui per darvi consigli? non potrei mai dal basso della mia fallimentare esperienza.

Sono qui per darvi coraggio? non potrei mai essendo ancora in un tunnel ben tappato da cui non entra neppure un briciolo di luce

Sono qui per farvi sentire sorelle, amiche, unite nell’impossibilità di trovare un capo ed una coda a delle giornate in cui il preadolescente costruisce folli schemi in cui intreccia la sua instabilità alla vostra inadeguatezza? si. eccomi.

Voglio danzare con voi su questa disperazione cieca che a volte ci fa chiedere come, quest’essere che dobbiamo quasi costringere a lavarsi, possa tramutarsi in un uomo di cui andrete fiere.. voglio ridere con voi del fatto che si possa anche solo pensare di non riuscirci dopo aver fatto cosi tanto per lui.

Voglio assicurarvi che si, se ne esce, anche non avendo capito una ceppa di come si avanza di livello in un quadro disseminato di calzini arrotolati, lego rotti e merendine sbriciolate in ogni angolo della stanza…

Io non l’ho mai trovato questo benedetto manuale d’istruzioni ma non ho alcun dubbio sul fatto che l’ultima parola dell’ultima pagina dell’ultimo capitolo sia: RESISTETE!!!!!

MAMMEDIMERDA COME FILOSOFIA DI VITA

Esiste un sottobosco di mamme che si autodefiniscono ironicamente “mammedimerda” , e quello che proclamano non è solo un modo di sentirsi mamme ma una vera e propria predisposizione d’animo, una filosofia di vita. Seguendo i profili social (mammadimerda su Facebook ed Instagram) di questo ormai nutritissimo gruppo di mamme creato da Francesca Fiore e Sarah Malnerich ( 20 mila solo su Instagram e ben 58 mila su Facebook ) ci si accorge di quanti e quali siano i disagi delle mamme di oggi ma anche di quanto sia liberatorio potersi confrontare sentendosi capite e non giudicate; poter leggere di pensieri o gesti che ci rendono tutte uguali, tutte umane.

Fra la fitta selva di blog e profili di mamme perfette – a cui facciamo sì riferimento per ricette sane e consigli psicologici di facile applicazione – ecco che nasce, da un’idea di queste due dissacranti e ironiche mamme, quel gruppo a cui tutte prima o poi approdiamo: quello delle mamme stanche e senza filtri che ogni tanto si guardano allo specchio e con il coraggio che solo da profonde occhiaie bluastre può scaturire si dicono ‘’ora basta, mi fermo o impazzisco”.

In questa community ci si sente accolte, coccolate ma mai compatite. La psicoterapeuta del gruppo, Medea, a cui si scrive per quesiti che neppure la nostra migliore amica vorrebbe sentirsi rivolgere, è sempre pronta a rispondere attraverso metafore e parallelismi con la vita animale, perchè dal mondo animale si può solo imparare; da qui l’unanime grido del ”sii pinguina”, la pinguina che lascia che a covare l’uovo sia il maschio, la pinguina che responsabiizza il maschio, la pinguina che divide i compiti in egual misura.

Battaglie sociali

Le mamme si sa, sono multitasking, instancabili, sono il grande pilastro della nostra società, il suo motore. Ed è proprio per salvaguardare questo ruolo fondamentale che su questi profili social si portano avanti anche importanti battaglie sul fronte dei diritti di mamme e bambini: dal ‘’salviamo la scuola’’ – attiva in questi ultimi giorni – per scongiurare la riproposizione della didattica a distanza anche a settembre, alla campagna “ noi ci siamo” per dare voce ai nostri figli, gli invisibili penalizzati da questa lunga emergenza coronavirus. così come la campagna ”influenza un politico” volta a raggiungere deputati e senatori affinchè le problematiche reali delle famiglie divengano decreti in grado di semplificare la vita degli italiani e consentano in questo particolare momento storico alle donne di conciliare il lavoro con il loro essere madri.

Concorso di fine anno scolastico

A questo punto dell’anno scolastico solitamente è bandito sul loro profilo Facebook un concorso volto a premiare il peggior lavoretto di fine anno scolastico. Non c’è da scandalizzarsi! Centinaia di mamme postano i lavoretti del proprio figlio per accaparrarsi il titolo di vincitrice. Ci si ritrova a ridere a crepapelle e perché no, a guardare con occhi nuovi e senza mai più sensi di colpa quel lavoretto di carta che ci si stropiccia in borsa perché non l’abbiamo messo via con sufficiente cura o che dopo qualche giorno finisce dietro la mole di libri sul ripiano più alto della libreria.

Mammadimerda è un mondo morbido sul quale lasciar cadere il proprio disagio e – come dicono spesso proprio le autrici Francesca Fiore e Sarah Malnerich – la propria inadeguatezza. Perché tutte – prima o poi – che lo si ammetta o meno, che sia per una vita o per un’istante, che sia dietro la porta chiusa di un bagno o senza freni dinanzi a chiunque: siamo una di loro.

SPOSARSI AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

Quando si parla di coronavirus e di tutte le privazioni a cui tutti siamo stati costretti durante questi lunghissimi mesi nessuno pensa a chi aveva progettato in questo preciso momento storico il proprio matrimonio.

Quando un evento così importante salta non per tua volontà, i sentimenti che montano dentro sono tanti e contrastanti. La ragionevolezza ci dice che è il minimo necessario a cui rinunciare per il bene della collettività, se visto in larga scala è forse anche una piccola cosa, un qualcosa di insignificante a fronte delle tante morti e dei tanti sacrifici fatti da medici ed operatori sanitari degli ospedali; ma questa piccola rinuncia ha invece un peso specifico grande, che preme e preme, e dilaga nel petto… facendoci sentire tristi, e vuoti, e impotenti forse.

La mia amica Alessia si è vista costretta a rimandare. A data da destinarsi. Senza che nessuno sapesse dirle quando e come avrebbe potuto riprendere a programmare un possibile giorno.

Poi l’emergenza è sembrata scemare e nonostante le tante restrizioni (non più di 12 invitati alla cerimonia civile, ad esempio) ha deciso di non posticipare al prossimo anno ma di accettare di buon grado una cerimonia con pochi invitati ma che sancisse l’amore fra lei e l’uomo che ama da anni, non dando spazio a questo malefico virus di decidere per loro, di ‘’congelare’’ i sentimenti che li lega, mettendo anche i desideri in pausa per un intero anno.

Boutique

Ed è per questo che ci siamo alzate di buon’ora per recarci in un negozio molto fornito della capitale per la prima prova ufficiale del suo abito da sposa.

Questo genere di negozi per una donna è come un piccolo angolo di paradiso. Decine e decine di vestiti stipati su ogni lato del negozio. Divisi per tonalità di colore. Crema, ceruleo, rosa, verde, rosso, nero..

Siamo entrate e ci hanno fatto disinfettare le mani, indossare guanti e tenere ovviamente la mascherina che già indossavamo.

Nell’attesa che ci raggiungesse la commessa che si sarebbe occupata di noi, abbiamo iniziato a sbirciare fra i vestiti, abiti meravigliosi e senza tempo. Tulle, raso, seta, organza… modelli e colori d’ogni guisa, lunghi , lunghissimi, asimmetrici o corti.

Non ho potuto nascondere un’eccitazione incredibile nel vedere tanti magnifici abiti tutti davanti ai nostri occhi.

Quando la commessa ci ha finalmente raggiunte, ha preso nota dei nostri abiti preferiti. Quelli che Alessia aveva in mente di provare, per capire quale tipo di modello fosse più congeniale al suo fisico e quale colore più adatto al suo incarnato.

Ne abbiamo opzionati ben sei per iniziare, e ci hanno fatte accomodare in una saletta con dei divanetti distanziati dove avrei potuto aspettare che lei uscisse di volta in volta dal camerino con un abito differente.

In nostro entusiasmo è stato un crescendo. Le mascherine ed i guanti hanno reso forse i movimenti un po’ impacciati ed hanno fatto sudare la futura sposa che era visibilmente accaldata, ma non hanno tolto la magia a questo momento. Potevo vederla. Era lì. Intatta.

La magia di scegliere l’abito giusto per andare incontro alla persona che ami, e con cui desideri dividere sogni e vita.

L’abito giusto

L’abito giusto – come spesso accade – era lì ad attenderci. Forse non quello che ci aveva colpito di più quando giaceva inanimato fra gli altri abiti, ma quello che una volta indossato ha reso la stanza ancor più luminosa.

Il solo abito possibile. Quello che era lì ad aspettare lei. Cucito come con un pennello sul suo giorno perfetto.

Siamo rimaste tutte e tre a distanza durante l’intera prova, ma questo distanziamento forzato non ha rovinato neppure un secondo di questa mattinata.

Gli ultimi dettagli da decidere sono stati proprio quelli inerenti a mascherine e guanti.

Con uno scampolo di tessuto dello stesso colore dell’abito la sarta creerà la mascherina, ormai si stanno organizzando per renderlo un accessorio in più a completamento dell’abito scelto. Così come i guanti, che sono obbligatori anche per la cerimonia civile.

‘’Ed al momento di scambiarci le fedi?’’ ci siamo chieste attonite mentre una piccola ombra ci ha attraversato il viso ed i pensieri, per poi sparire immediatamente.

Troveremo il modo. E tutto questo sarà un qualcosa di passeggero, da dimenticare.

Resterà solo l’amore che fa da cornice a questa cerimonia, resterà l’emozione di questa giornata ventosa, resterà la caparbietà di chi non ha rinunciato ai propri progetti a causa del coronavirus, accettando di viverli in maniera diversa pur di non vederli svanire del tutto.